Nella casa del Padre abbiamo tutto, ma noi continuiamo a desiderare un misero capretto da consumare lontano da lui e dai fratelli.
«Tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici».
– Luca 15,29
La quarta Domenica di Quaresima è chiamata anche della letizia, della gioia, poiché le letture odierne ci fanno intravedere, anticipandola, la mèta a cui questo tempo penitenziale ci sta conducendo, la festa della Pasqua che nella prima lettura è rappresentata proprio dal mangiare i frutti della terra promessa all’indomani dell’ingresso in essa, mentre nella pagina evangelica è rappresentata dal banchetto con il vitello grasso nella casa del padre.
Questa anticipazione della festa pasquale, però, ci lascia con una sorta di retrogusto amaro. Nel brano evangelico anche Gesù sta banchettando, mangiando con “tutti” i pubblicani e i peccatori. A tentare di rovinare la festa ci pensano gli scribi e i farisei che da fuori mormorano contro Gesù.
«Ed egli disse loro questa parabola…». Si tratta di tre parabole che vanno intese come un’unica parabola e di cui l’ultima non è altro che la rappresentazione narrativa di quanto sta accadendo nella realtà. C’è un figlio – che rappresenta tutti i pubblicani e i peccatori – per il quale il Padre ha organizzato una festa sontuosa, senza limiti di spesa, e c’è un altro figlio che mormora, recrimina e si rifiuta di partecipare alla festa, così come gli scribi e i farisei stanno facendo nella realtà.
Solitamente la nostra attenzione si ferma al primo figlio, a ciò che ha fatto o non ha fatto, al suo peccato, alle modalità del suo ritorno, mentre poca attenzione prestiamo al secondo figlio, che per il fatto di rappresentare coloro che si rifiutano di partecipare alla festa e ai quali Gesù, uscendo dalla festa, sta raccontando questa parabola, è invece il soggetto più importante tra i protagonisti della parabola.
È vero, il primo figlio, il più giovane, ha voluto separarsi dal padre, dal fratello e da tutti gli affetti domestici poiché riteneva che la pienezza della vita, con tutte le gioie che essa ha da offrire, si trovasse lontano da quell’ambiente relazionale ed affettivo. Vivrà un sogno, ma con un amaro risveglio in mezzo ai porci. Un sogno che l’aveva portato a vivere una vita fuori dalla realtà del suo essere, tanto che Gesù, nel racconto, sottolineerà quel suo “rientrare” in sé stesso, nella verità del suo essere figlio di quel ricco padre da cui si era allontanato, piuttosto che meno di un porco per cui dargli le carrube in pasto sarebbe risultato un inutile spreco.
Rientrando in sé stesso, nel suo cuore, “quando era ancora lontano” fisicamente da casa, scopre tutto l’amore del padre, tutto il calore del suo abbraccio misericordioso, tutta la gioia di non aver mai smesso di essere figlio, tutta la sua dignità di figlio, di compadrone ed erede di ogni bene del padre. Questo figlio che aveva cercato la festa lontano da casa, proprio rientrando in questa casa, dentro l’abbraccio del padre, la gusterà veramente e pienamente.
L’altro figlio, il più grande, non è tanto diverso dal primo nei sentimenti. È sempre rimasto tra le mura domestiche, ma il suo cuore è pieno di risentimento. Lui ha ubbidito ad ogni comando e ha fatto mille cose, spaccandosi la schiena con un duro darsi da fare… ma per chi e perché? Per mangiarsi un capretto con i suoi amici! Sì, per una misera grigliata, fuori casa – senza il padre né il fratello, sottinteso -, insieme a quattro amici.
Il suo cuore non è mai stato in quella casa, i suoi sogni non contemplano la presenza del padre e del fratello, la festa che sogna prevede solo un pò di carbonella e qualche costoletta d’agnello. Si è sempre percepito e ha vissuto come un escluso, un incompreso, un estraneo in quella casa e anche ora che il padre esce fuori supplicandolo di entrare, continua a ripetersi quella paranoia che ha nutrito in tutti i suoi anni: non sono tuo figlio, ma il tuo servo; non ho fratelli, quello è solo “tuo figlio” che non ha niente a che spartire con me perché tu non hai mai spartito niente con me… Il che è falso, visto che all’inizio del racconto ci viene detto che il padre “divise tra loro le sue sostanze”.
– Io ti servo da tanti anni, ma tu non mi hai mai dato neanche un capretto.
– Ma tu non sei un mio servo, tu sei mio figlio!
– Non è vero, perché tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.
– Ma tutto ciò che è mio è tuo!
– Non mi interessa se tutto è mio, io volevo il capretto! Volevo la ricompensa per il lavoro che ho fatto per te, volevo l’invidia dei miei amici e anche di quel tuo figlio – lui sì che si è divertito! -, volevo un piedistallo da cui tutti potessero ammirare il mio valore per tutte le cose che ho fatto, volevo essere considerato da te e mostrato agli altri quale il migliore, il perfetto, l’unico su cui poter fare affidamento, che non sbaglia mai, che ha sempre ragione… mentre tu mi consideri pari a quello lì. Ora vedremo come farai senza di me! Ti rovinerò la festa facendoti pesare la mia assenza.
– Figlio, ti sto correndo incontro e ti sto supplicando, ora, mentre il tuo cuore è lontano da me, così come ho fatto con tuo fratello nella stessa situazione di lontananza. Questa festa è anche per te, questa festa è la tua festa.
Come finirà la storia? Questo figlio rientrerà anch’esso in sé stesso per scoprirsi anch’esso figlio amato senza misura? Pochi giorni fa, un mio amico convertito alla fede da un po’ di anni mi diceva che la peggiore condanna che Dio ha caricato sulle nostre spalle è la libertà.
Abbiamo tutto, ma preferiamo a questa inestimabile ed inesauribile ricchezza il misero capretto del nostro egocentrismo, il piedistallo su cui poggiare in bella mostra il nostro io, il sogno di qualcosa che sappiamo svanirà come nebbia al sole.
Sì, credo che il padre rientrò quel giorno in casa con il viso bagnato dalle lacrime e il cuore a pezzi. Era morto definitivamente un figlio che, nella sua libertà, aveva deciso di non risorgere.
Chiediamoci quest’oggi qual è il “capretto” che ci impedisce di lasciarci avvolgere dall’abbraccio misericordioso del Padre e di Gesù, incarnazione e volto umano di questo amore che ci da vita e che spesso ci raggiunge attraverso i fratelli e le sorelle che egli ci ha messo accanto.
fra’ Saverio Benenati, OFM Conv.