Non aprite quella porta

Per ogni discepolo di Cristo c’è una porta da aprire dietro la quale si nasconde il mostro delle proprie paure.

 

La Liturgia della Parola domenicale ha una caratteristica: la prima lettura, tratta dall’Antico Testamento, anticipa sempre qualcosa che nel Vangelo, nel Nuovo Testamento, trova il suo compimento. Spesso nel testo veterotestamentario si trova la chiave di lettura e quindi di comprensione del testo evangelico. La liturgia della Parola di ogni domenica, così come è stata impostata nei secoli, segue il metodo millenario per cui la Parola si spiega con la Parola, si spiega già da sé stessa.

Ebbene, nella seconda Domenica di Quaresima dell’anno C, detta anche Domenica della Trasfigurazione a motivo dell’episodio evangelico che viene proclamato, sembra esserci poca o nessuna corrispondenza tra il primo episodio – l’alleanza di Dio con Abramo – e il secondo – la Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor -, nessun aggancio, se non che…

Se non che, mettendo i due episodi l’uno di fronte all’altro, troviamo tra le pieghe del testo un elemento comune: il terrore e la grande oscurità che invadono Abramo da una parte e la paura dei discepoli di Gesù dall’altra parte. Ecco su cosa oggi la nostra Madre Chiesa ci vuole far puntare lo sguardo!

 

 

Andiamo con ordine. L’episodio dell’Alleanza del Signore con Abramo è un evento di trasformazione: Abramo, uomo avanti negli anni e sposato con una donna sterile, per la sua fede in Dio, sarà trasformato in “padre” di una discendenza numerosa come le stelle in cielo; da uomo senza terra, uscito da Ur dei Caldei, avrà in possesso una terra che va dal Nilo all’Eufrate.

«Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Abramo chiede certezze e Dio è pronto a dargliele impegnandosi personalmente a realizzare quanto promesso in un rituale di alleanza proprio dell’epoca. Abramo predispone il tutto – gli animali divisi a metà attraverso i quali dovranno passare i contraenti – ma Dio non si presenta all’appuntamento. Passano le ore, ma di Dio neanche l’ombra. Così, «mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono». Solo quando «si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi» e l’Alleanza viene così conclusa.

Perché mai il Signore si è lasciato attendere così tanto? Abramo è ormai anziano e l’attendere, il tempo che scorre, lo terrorizzano. Perché Dio ha permesso che Abramo passasse delle ore di puro terrore, assalito dalla “grande oscurità” del dubbio che tutto fosse solo un’invenzione della sua mente? Sono ore in cui “un torpore cadde su Abram”, lo stesso “sonno” di cui saranno vittima i discepoli sul Tabor.

Il “torpore”, il “sonno”, è la condizione di assenza di difese da parte dell’uomo, è il momento in cui l’uomo è inerme. È anche il tempo in cui viene meno l’elemento razionale dell’individuo, in cui si abbassano le difese psichiche, mentali, delle logiche puramente umane, sensibili, cioè derivanti dai sensi.

Abramo, per sperimentare le promesse di Dio, deve entrare in una dimensione di abbandono totale in Dio, nella dimensione della fede assoluta. E questo fa paura, terrorizza il suo animo come di chiunque altro. Ma è un passaggio, una “pasqua” imprescindibile.

 

 

Anche Gesù, vero Dio ma anche vero uomo, passerà attraverso questo “terrore” nell’orto degli ulivi fino al punto che arriverà a sudare sangue.

Così anche i suoi discepoli, pieni di dubbi su Gesù, sul significato della sua Pasqua di passione, morte e risurrezione, incerti se continuare a seguirlo, saranno chiamati a “salire sul monte” – espressione che nella Bibbia indica il luogo della rivelazione di Dio – passando attraverso l’oscurità, il sonno e la paura.

Gesù, una settimana prima, aveva preannunciato loro la sua croce ma anche la sua risurrezione e aveva chiesto a quanti avevano intenzione di seguirlo e di condividere la sua gloria, di prendere anch’essi la propria croce e di perdere la vita a motivo di lui: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Cose da far tremare le vene e i polsi a chiunque, tanto più a dei poveri pescatori! E tutto ciò fidandosi della sola parola di questo rabbì di nome Gesù.

Ecco, dunque, l’episodio della Trasfigurazione: i discepoli devono entrare dentro la nube oscura del dubbio e dell’incertezza e abbandonarsi totalmente a Gesù, fidandosi pienamente della sua parola, obbedendogli senza paura e senza difese, perché Gesù è il Figlio di Dio, l’eletto. Solo così potranno essere trasformati in suoi veri discepoli, capaci di dare la vita per il suo Nome.

Così deve essere per ogni discepolo di Gesù, ancora oggi. Anche noi, come scrive san Paolo nella lettera agli Efesini «aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso», ma a condizione di affrontare le nostre paure, smettendola di difendere il nostro presunto benessere umano e terreno – poiché «la nostra cittadinanza infatti è nei cieli» -, abbassando perciò le nostre difese e guardando unicamente alle promesse di Dio e alla sua fedeltà e alla meta finale, cioè la partecipazione alla sua Gloria.

 

 

Fede e paura sono inconciliabili, questo è il punto. O si confida in Dio e ci si abbandona totalmente nelle sue mani, credendo e obbedendo alla sua parola, alle sue promesse e alle sue benedizioni, nonostante tutto e tutti, o non saremo mai capaci di compiere quei percorsi, quelle azioni, quei gesti che sono insiti alla vita di fede.

Avere fede significa disarmarci di quei mezzi di difesa con cui ogni giorno affrontiamo – più spesso fuggiamo! – la vita con le sue relazioni, i suoi problemi, i suoi fallimenti e le sue croci, per abbracciare denudati la croce gloriosa di Cristo il quale per la nostra salvezza, nudo ed inerme, si è totalmente consegnato noi.

Un film cult dell’horror porta il titolo “Non aprite quella porta”. Per ogni discepolo di Cristo c’è una porta da aprire dietro la quale si nasconde il mostro delle proprie paure: la paura della morte, la paura della malattia e della sofferenza, la paura della vecchiaia, la paura della solitudine e dell’abbandono, la paura della sconfitta, la paura di affrontare i problemi o le persone, la paura di perdonare o di chiedere perdono, la paura di apparire fragili, la paura del fallimento…

Chiediamoci: quali sono le mie paure? E se non le fuggirò, fidandomi di Dio, le potrò attraversare come quella nube in cui entrarono Pietro, Giacomo e Giovanni sul Tabor, e così scoprire, dentro di essa, la luce sfolgorante del Cristo glorioso che dissipa ogni paura.

Recita il salmo 26:
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?

San Francesco scrive nel suo Testamento che quando affrontò la sua più grande paura – i lebbrosi – e che il Signore stesso gli aveva posto dinanzi, «ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo».

Corriamo oggi ad abbracciare il nostro “lebbroso” – quella cosa o situazione o persona che ci terrorizza solo il pensiero di affrontarla – e sperimenteremo una “pasqua” di trasformazione inaspettata.

fra’ Saverio Benenati, OFM Conv.